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Piazza d’italia
Rionero in Vulture
2008_

PROGRAMMA:
Concorso internazionale per la progettazione di una piazza centrale .

CLIENTE:
Comune di Rionero in Vulture

CONCEPT:
“Al di là delle gialle colline c’è il mare, al di là delle nubi. Ma giornate tremende di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo si frammentano prima del mare. Quassù c’è l’ulivo con la pozza dell’acqua che non basta a specchiarsi, e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai”. (Carlo Levi, Luna d’agosto – 1935)

La Lucania è il cuore pulsante dell’Italia mediterranea: terra aspra, lontana quasi tutta dal mare, dove però gli effluvi dello Jonio e del Tirreno arrivano, seguendo i calanchi, arrossando i tramonti estivi. Una terra che è erosa dal vento, al pari dei suoi antichi borghi, aggrappati alle colline: in essa un antico e ormai spento vulcano ricorda che sotto il tremore della terra c’è il fuoco che divampa e fa le rocce nere. Rionero, che guarda alla Puglia e alla sua pianura che si incendia, quando il grano è raccolto e le stoppie crepitano al vento, sorge proprio sulle pendici di quell’antico vulcano, dove una sorgente leggendaria faceva nascere il Rivo Negro da cui essa sin dal XII° sec. prende il nome. Abbiamo conosciuto questo lembo di terra italiana un giorno, fuggendo con la macchina tra i fumi delle stoppie, oltre l’ultimo comune pugliese, Rocchetta ci pare si chiamasse, forse per un piccolo Castello diruto, che si mostrava su bordi del centro antico, lungo la piana di Melfi. Salendo la strada che ci portava al paese e abbandonata la piccola anonima periferia, ne abbiamo scoperto la bellezza, quasi metafisica, tra le chiese e i palazzi, colpiti dalla luce gialla del sole estivo: non fosse stato per la lingua, l’atmosfera sarebbe stata simile ai paesi dell’Aragona. Più buono di sicuro del conosciuto vino tinto spagnolo, il fruttato vino Aglianico accompagnato da una odorosa salsiccia schiacciata e da pezzi di un formaggio anch’esso locale, dalla forma di una grande scamorza.
Pensavamo di camminare in salita, per arrivare al Palazzo Fortunato, che la guida turistica ci indicava come da vedere, e, invece l’andamento orografico a cui il tessuto urbano si era adeguato, ci faceva leggermente scendere. Abbiamo amato questo paese, conosciuto per caso, perla nascosta tra le pieghe di una terra povera ed assolata. L’abbiamo associato al suo nome, sorgente nascosta e ombrosa tra pietre di basalto nero, ancor più dopo, quando, girando per il distretto del Vulture, abbiamo visto i piccoli laghi e abbiamo bevuto le sue acque preziose. Nella nostra generazione di progettisti, mostratasi quando la spinta del Movimento Moderno era, ormai da tempo, esaurita e le forze centrifughe manifestatesi spingevano nei più diversi sensi, rompendo l’unità della disciplina architettonica, alcuni e, tra questi, noi, hanno cercato di dare un senso al segno creatore dell’Architettura, che non fosse gratuito, illogico e personalistico. Certo, l’Architettura è una ben strana scienza, sempre sull’orlo dell’invenzione pura, attratta dal libero segno; ma, forse, per questo, è quanto di più vicino, anche per chi sia ateo, al gesto creatore della deità, comunque essa sia concepita. Anche l’Architettura nasce ed esiste, come il biblico creato, dal momento in cui la luce è; come Le Corbusier sosteneva, essa non è altro che il manifestarsi e lo scolpirsi di volumi sotto la luce. Essa deve essere capace di dialogare con i luoghi in cui sorgerà, poiché quando essa sarà stata realizzata, diventerà parte di quei luoghi. Il fantasma poetico che promana da ogni dove, in maniera diversa, genio fantastico dei luoghi, appunto genius loci, come lo definiva Norgberg Schultz, dotato di una sua propria interna ironia, cioè di capacità di erosione delle certezze fuori dal tempo e dallo spazio, si è manifestato a noi, in Rionero, percorrendo le sue strade storiche, portandoci all’orecchio del cuore il tenero rumore di una sorgentella fresca. L’ironia di quel genio, di quell’anima dei luoghi ha scavato a lungo nelle nostre memorie, cosi a lungo che, quando ci siamo approcciati al tema di concorso, al ridare un senso a spazi divenuti liberi nel cuore del centro di Rionero, più scacciavamo da noi quel rumore, più esso diveniva impellente desiderio di trasformare il suono in segno, l’idea in pietra. Così crediamo che nasca il sogno di un’ Architettura: mediazione tra evocazioni dei luoghi e biblioteca delle memoires d’Architecture che ci portiamo per formazione, quale dote di cultura personale. Al centro di quello spazio vuoto, che abbiamo percorso, fotografato, vissuto ci siamo chiesti se forse non era il caso di pensare a un sistema di “tre piazze”, partendo da quella più in alto, posta di fronte al Palazzo Fortunato, per arrivare a quella più in basso, vicino alla Villa, cercando di legare gli elementi visivi all’idea di un elemento di richiamo all’origine stessa della Città di Rionero in Vulture, come nelle Places Royales di Nancy, in cui il legame centrale è affidato al tema di un ponte che scavalca il fiume, che trancia e divide la Città e che unisce le due diverse piazze. Inserire le funzioni richieste dal Concorso in un nuovo edificio e limitarsi a questo, sarebbe stato non rispondere alla necessità di riqualificazione di un punto nodale del Centro Storico di Rionero. Abbiamo così pensato di progettare un organismo complesso, insieme edificio, scenario della nuova piazza mediana, ricordo dell’origine del toponimo: uno sperone di roccia nera, di basalto, scavato dallo scorrere dell’acqua sorgiva, che ne rompe la scorza superiore a formare una piccola pozza, e deborda sulle pareti per, alfine, raccogliersi in un piccolo canaletto di bordo alla piazza dalla forma di foglia, nutrita da quell’acqua, memoria del Rivo Negro. “Ben scavato, vecchia talpa” – ci viene da dire, pensando al genio del luogo che ci ha accompagnato dalla prima visita di Rionero a quando abbiam posto la matita sul foglio. Ed è proprio così. L’idea che abbiamo voluto rendere è che non vi sia stato mai un vuoto casuale nel Centro Storico, causato da abbattimenti, che hanno reso deboli luoghi mai pensati per essere piazze e luoghi collettivi. No, al contrario. Realizzato il nostro progetto, esso sarà lì, come se vi fosse sempre stato, amico degli anziani che al baretto giocano alle carte, dei bambini che, accaldati dai giochi, si rinfrescheranno vicino ai veli d’acqua, delle donne, da lunghi anni, meno male, liberate dal peso della raccolta d’acqua negli otri d’argilla, che uniranno le loro voci squillanti, così care ai loro uomini, al canto delle acque scorrenti. Un luogo amico, come se esso fosse sempre stato lì. Cosa ci fa paura delle nostre grandi città, se non quelle periferie vuote di senso, dove le piazze, se vi sono, sono meri spazi sottratti all’edificazione, dove le strade sono corridoi, senza architettura, mentre i volumi incombono e il traffico è massimo? La piazza è invece qualcosa di molto di più di un vuoto. Mettendo affianco l’uno all’altro un disegno di una Piazza ideale di Leon Battista Alberti e uno dei tanti quadri delle Piazze metafisiche di De Chirico scopriremmo quello che già sappiamo, avendo conosciuto e amato le tante piazze che abbiamo visitato, nell’Europa che ci ospita: le piazze sono le architetture che le disegnano e, insieme, sono i luoghi dello scambio umano, dove gli occhi incontrano le mani, i cuori si danno appuntamento, i bambini rincorrono i piccioni. Non è forse vero che le nostre città sono sempre meno umane, perchè non ci sono più i luoghi delle nostre infanzie, dove si giocava, a secondo dei luoghi e delle usanze, alla campana, alla corda, al cerchio?

Abbiamo ricostruito con il nostro progetto un’architettura analoga intendendo per sforzo analogico il tentativo di costruzione di un’architettura possibile lì ed in quel luogo, non dotata di alcuna ambiguità, predestinata, si potrebbe dire, a sorgere in quell’area, figlia di quella luce e di quegli spazi, in breve di quella terra. Architettura analoga non vuol dire architettura finta, copiata. Riqualificare, spesso, significa ricucire, ricostruire lungo i fili della trama lasciataci dalla storia, un percorso, un nuovo ordito. Nel nostro caso la trama lasciataci dalla storia è il tessuto urbano del centro, fatto di strade che seguono le isoipse del terreno, con la sapienza dell’antico costruire, che adattava l’edificato all’andamento orografico. Su questa trama abbiamo disegnato un’architettura che non finge d’essere antica; al contrario, grida la sua modernità, rivendica il diritto di costruire con lemmi nuovi una nuova estetica del contemporaneo, costruendo, però un corridoio con il passato. Tradire la tradizione: è in questo messaggio il percorso possibile di un’architettura contemporanea, che si sforza di restare interna alla disciplina e non gioca con le varie futili mode. Per tradire qualcosa bisogna, in primo luogo, esserne stati parte. Non si può, infatti, tradire se non partendo da un centro che si abbandona, trad-ire, significa andare oltre, nella traduzione più stretta dal latino. Rimanere fermi nella tradizione significherebbe rinunziare alla trasformazione dei linguaggi, mentre la lingua è quanto di più mutevole esista nella cultura. Non solo la lingua, intesa come idioma parlato o scritto, muta velocemente, inglobando nuovi lemmi, parole, significati mutuati da altre lingue nazionali o locali; anche il linguaggio dei segni, come quello della musica, della pittura, della scultura e, infine, dell’architettura si modificano costantemente, non foss’altro perché cresce il melting pot delle culture; sicché rivendicare il permanere statico della tradizione significa alzare una diga di carta, mentre la marea sale. Ma se, dentro il rinnovamento necessario non rimane un legame con ciò che si è precedentemente appreso, le lingue diverranno incomunicabili, in una sorta di Babele indecifrabile in cui ognuno è convinto che il suo linguaggio sia quello universalmente riconoscibile, mentre non si accorge che, in realtà, è solo il suo linguaggio. Irrompe necessariamente la necessità di mutare, mentre impellente è l’urgenza di lanciare l’ancora in un porto sicuro: potremmo così definire l’atteggiamento che occorre, anche in architettura, per traguardare il futuro, amando il passato e le sue vestigia. Come sosteneva Italo Calvino: “Sappiamo che, come nessun giocatore di scacchi può vivere abbastanza a lungo per esaurire le combinazioni delle possibili mosse dei trentadue pezzi sulla scacchiera, così – dato che la nostra mente è una scacchiera in cui sono messi in gioco centinaia di miliardi di pezzi – neppure in una vita che durasse quanto l’universo s’arriverebbe a giocarne tutte le partite possibili. Ma sappiamo anche che tutte le partite sono implicite nel codice generale delle partite mentali, attraverso il quale ognuno di noi formula di momento in momento i suoi pensieri, saettanti o pigri, nebulosi o cristallini”. (I.Calvino -Cibernetica e fantasmi). In Architettura tutto è stato già detto, ma tutto è ancora da dire, come nelle infinite possibilità date dai trentadue pezzi di scacchi bianchi, che si muovono avverso i trentadue neri. I “mattoni” con cui si costruisce un’idea di Architettura, in fondo, sono gli stessi da quasi quattromila anni. Come in uno spartito musicale non si può apprezzare la melodia se non v’è la diatonia, così la simmetria non verrà intesa se non vi sarà un elemento, un cenno che richiami una storia diversa e possibile, e cioè un elemento di dissimmetria. Il nostro progetto, in fondo, è volutamente semplice: un edificio a blocco, di piccole dimensioni, che contiene una sala convegni ed aree museali/espositive/laboratori, così come richiesto dal Bando. Esso costituisce lo sfondo di una piazza situata a livello intermedio tra altre due piazze, l’una più in alto e l’altra più in basso; emerge dal terreno, nella sua forma di sperone di roccia lavica, nera, dalle pareti irregolari, segnati dai tagli di luce delle vetrate che illuminano gli ambienti interni e dallo scorrere verticale dell’acqua. Al livello più basso troviamo un’area destinata ad esposizioni e laboratori a cui si accede scendendo dalla piccola hall situata al piano terra. Dalla hall si accede salendo alla sala convegni da 200 posti. La forma della copertura dell’edificio, in parte disegna dal piccolo specchio d’acqua, permette l’illuminazione non abbagliante della sala convegni e insieme ricorda, quasi in un plastico a scala ridotta, la forma irregolare della città che si specchia di lato: piccoli isolati alcuni più alti, altri più bassi. Posti lateralmente all’edificio realizzato, noi vedremo attraverso di esso la città e il paesaggio che sono oltre, in un gioco di luci ed ombre. Sulla piazza disegnata dalla grande foglia ritroveremo lo spazio per i giochi; ricordiamo un vecchio dalla lunga pipa che incontrammo la prima volta che visitammo Palazzo Fortunato; stava sulla soglia e, accortosi di noi stranieri in quel luogo, con molta naturalezza prese a parlare delle strane presenze, che magicamente avevano albergo in quegli antichi palazzi: i munacidd li chiamava e ci invitava a farci il segno della croce. Noi vediamo nelle piazze costruite secondo il nostro sogno d’architettura riprendere e rinvigorirsi le tradizioni che caratterizzano Rionero, le processioni tipiche dei santi patroni, i balconi con le coperte più belle messe fuori a salutare l’apparire delle statue; ecco, lì, dove l’acqua scende dall’alto, la crocchia dei bambini posiziona l’arrivo dell’antico gioco dell’acchiapparello, mentre dalla casa vicina la mamma si sporge dal balcone a chiamare il suo figlio accaldato al pranzo domenicale. Ai due amici che scendono dalla piazza superiore e che stanno tra di loro parlando, ricercando il perché del disegno a forma di foglia della piazza intermedia ci avviciniamo e spieghiamo che l’abbiamo pensata così, lambita dall’acqua del Rivo Negro, per darle una forma che imitasse, anche per il disegno concavo, un abbraccio corale; essi si fermano e ancora ci chiedono se l’acqua che scorre sia sempre la stessa o sia sempre nuova. Come guide del nostro stesso lavoro, dopo aver indicato il luogo a valle dove l’acqua si inabissa nella vasca interrata di raccolta e filtraggio per essere di nuovo rinviata dalle pompe nello specchio d’acqua superiore, li invitiamo a risalire di nuovo, per meglio loro spiegare ciò che hanno visto. Al suono della campana di una Chiesa vicina, che rintocca con solennità avvisandoci dell’arrivo dell’ora del pranzo, ritorniamo alla piazza superiore e mostriamo a nostri due nuovi amici le pietre laviche smosse da cui, sorgiva, rinasce l’acqua. Abbiamo salvato e riutilizzato, per la pavimentazione della piazza superiore, le vecchie basole in basalto e le mostriamo ai nostri nuovi amici, inserite nel nuovo ordine del disegno, con gli inserti di pietra calcarea bianca bocciardata, lungo i quali sono presenti le fosse per gli alberi di nuovo impianto. Uno dei due, appoggiato al nodoso tronco della quercia – forse è un agronomo, poiché è molto competente – si compiace della scelta dell’essenza. “Il clima di qui è strano. Dall’inverno freddo si passa immediatamente alla stagione calda e pochi alberi riescono a resistere. Il rovere, il leccio, dal legno duro che non marcisce, dalle radici profonde sono tra questi ” – e, dicendo così accarezza il tronco rugoso. C’è in quella carezza su un soggetto vivente, perché tale è, comunque, un albero, quasi la tenerezza che si ha, carezzando il viso, pieno delle rughe dovute alla fatica degli anni, dei nostri anziani, uomini che hanno rotto le zolle di una terra aspra e donne che hanno cresciuto nel tepore delle loro case generazioni diverse, al suono di ninne nanne antiche. Anche per questo abbiamo scelte le querce, alberi destinati a permanere per lunghi anni, che donano, talvolta, quelle piccole bacche semiaperte, cadute per terra, gioco per l’inventiva dei bambini. Dominiamo dall’alto la vista delle piazze, dei semplici lumi da noi disegnati e così realizzati, che al bordo delle piazze illuminano la sera i luoghi che adesso vediamo luminosi al sole e chiediamo conferma – che arriva – che quei piccoli faretti, che richiamano alla memoria, pur nella loro modernità, le allegre decorazioni delle feste patronali diano davvero, come noi volevamo, una luce morbida, che non abbaglia e permette di vedere ancora le stelle nelle notti estive, quando il velluto del cielo è più nero, tra Santa Chiara e San Lorenzo. Ci raccontano che proprio nell’ultima passata notte di San Lorenzo hanno visto il cielo striarsi di stelle cadenti, come mai negli altri anni e che alcune di esse son sembrate cadere, dove il nuovo Rio Negro trae la sua origine, tra le pietre sconnesse. Poi riscendiamo alla piazza intermedia ed entriamo nell’edificio da una delle due grandi porte/vetrate; ci dicono i due (Mario e Rocco li chiameremo) che il giorno della festa della Madonna del Carmelo – era agosto e faceva fuori il solito caldo proveniente dalla pianura foggiana – hanno assistito all’interno della Sala ad un concerto di musica da camera, stando ben freschi, poichè l’acqua dello specchio superiore e quella che scorreva sulle pareti abbassava molto la temperatura, permettendo un risparmio sul condizionamento dell’aria. Dall’interno della Hall di ingresso facciamo notare a Rocco come le aperture vetrate a destra e sinistra, tra di loro messe in asse, permettono di traguardare sia dall’interno che dalla Piazza e vedere la vecchia fontana, che, anch’essa, ricorda l’origine legata all’acqua di Rionero posto nel Vulture di Lucania. Stanno ancora i manifesti alle pareti di tutte le iniziative di questa ultima estate vulturerese; dai paesi vicini sono venuti in tanti per vedere e godere delle nuove piazze di Rionero e hanno visitato il piccolo museo che sta giù – e lì ci conducono Mario e Rocco orgogliosi – per farci vedere le tante cose che fanno di Rionero una perla anche nella storia: i primi scritti di Giustino Fortunato, dove si manifesta l’orgoglio e la tristezza di essere figlio di una terra meridionale, solo conquistata all’Italia, ma non ancora parte di Essa, l’appello del brigante Carmine Crocco a resistere ai piemontesi e ci dicono che qui egli nacque e non a Brindisi di Montagna dove pure l’onorano tanto con uno spettacolo a cui partecipa tutto il paese. Non siamo di qui e non conosciamo bene, come loro, le storie di quegli uomini e allora Mario più diffusamente ne parla, con tutto l’orgoglio di concittadino. “Siamo gente con una storia che viene di lontano – ci dice Rocco – mai doma, anche ai nazisti abbiamo saputo resistere, pagando un prezzo di sangue; ci piace questo luogo ridente che avete disegnato per noi – continua, mentre usciamo di nuovo fuori e ci andiamo a sedere su una delle panchine sul bordo della piazza, dove l’ombra ci è amica – perchè ci somiglia; è forte e duro come la pietra, ma sa accarezzare con dolcezza con le sue acque, come le mani delle nostre donne sul viso dei nostri bambini. La sera vengono in tanti qui a stare e questo luogo che era abbandonato dopo l’abbattimento dei palazzi danneggiati dal terremoto ora è pieno di vita”. Rocco ci chiede le ragioni dell’uso di materiali diversi per le pavimentazioni delle tre piazze. Noi spieghiamo che abbiamo per le aree di circolazione e per la piazza superiore riutilizzato le basole vulcaniche esistenti, ridisegnando il loro accostamento, con inserti di pietra calcarea lungo la linea di posa degli alberi, mentre per la piazza inferiore, vicino alla Villa, abbiamo posto sempre le basole vulcaniche, ma tra di loro leggermente discostate, per far nascere tra di esse un po’ di verde e permettere così un drenaggio naturale dell’acqua proveniente dalla piazza intermedia. Il disegno di quest’ultima è stato fatto con un acciottolato fine, con le nervature delle foglie realizzate in basalto. Poiché la piazza è inclinata, l’acciottolato permette di avere una superficie sicura e non scivolosa. Ci indicano Rocco e poi Mario le insegne dei piccoli baretti e delle pizzerie e dei due, tre ristoranti che hanno aperto e poi, mentre scendono, per andare verso la Villa alle loro case, ci salutano con un abbraccio. Anche noi, mentre il sole picchia con forza, lasciamo alle spalle i luoghi che non sono più nostri e che appartengono ai Rocco, ai Mario e ai tanti altri abitanti di questa Rionero e ci avviamo alle macchine sentendoci di nuovo vicini i munacidd raccontati da quel vecchio dalla lunga pipa, che non abbiamo oggi incontrato, che ci accompagnano festosi, mentre riprendiamo, pensosi, a discutere tra noi, come spesso facciamo dell’Architettura. E’ lontano dal nostro modo di pensare l’Architettura fatto di disegno fine a sé stesso, di pura invenzione: riteniamo che i progetti così pensati siano riconducibili più ad un gioco plastico, che alla sfera della ricerca estetica. Se è vero che cimentarsi nella ricerca di una definizione esauriente dei fermenti del nostro tempo appare un’impresa quanto mai rischiosa e, sotto parecchi aspetti, sterile, è pur vero che il compito sarebbe più facile e interessante se ci si limitasse ad un’analisi condotta attraverso l’individuazione di alcune parole chiave, intese come guide per posare lo sguardo sulla realtà. Una di queste parole da usare come lente di ingrandimento, soprattutto per esplorare il campo del sapere a noi più vicino, quello della Architettura e del disegno della Città, potrebbe essere senz’altro il termine “crisi”. La storia dell’architettura è infatti segnata, già a partire dalla fine del XIX secolo dalla progressiva presa di coscienza di un lento ma inesorabile dileguarsi delle certezze, dei fondamenti teorici e pratici del sapere. Uno alla volta, tutte le categorie del pensare e dell’agire, idee e concetti ritenuti immutabili come il tempo, lo spazio, il rapporto tra cause ed effetto, sono stati messi alla prova. Assunta consapevolezza di ciò, su un piano più teorico ed intellettuale si è ritenuto che una delle possibili linee di azione fosse, da un lato, quella di trovare nuove risposte, più adeguate al tempo che stiamo vivendo, agli interrogativi classici; dall’altro, si è cercato di costruire un’immagine il più possibile confortante del lavoro e delle prospettive della scienza, la quale ha mantenuto la speranza di continuare a ricoprire il ruolo ereditato dal tempo di Newton e Galileo, di faro illuminante dell’esistenza umana. Su un piano meno astratto, la crisi che caratterizza il nostro secolo è però una crisi di tipo esistenziale, profonda e diffusa a livello globale; nessun aspetto della nostra vita ne è immune, a partire da questioni come la salute, i mezzi di sussistenza, la qualità dell’ambiente e dei rapporti sociali, l’economia, la tecnologia. Si è sviluppata insomma la coscienza di una serie impressionante di emergenze, che coinvolgono l’umanità, a tutti i livelli in un tentativo di ricerca di nuove soluzioni. L’immagine stessa della architettura, quale sapere “di mezzo” tra estetica e scienza ne risulta quindi modificata: il sapere ereditato dall’età moderna, per poter sopravvivere, deve mettere in discussione uno dopo l’altro tutti i suoi fondamenti, ma soprattutto deve scoprirsi ancora capace di calarsi nella vita reale, e rispondere alle domande sempre più pressanti che essa gli pone, con semplicità, ironia e poesia. Convinti di questo e di aver lasciato in Rionero un segno poetico, una carezza d’amore per questa terra, ne partiamo da essa, per tornare ai nostri luoghi di vita e lavoro. Poiché tutto è ancora da dire in Architettura, altri avranno detto altro, per coniugare il proprio affetto in questo Concorso teso a dare, a ridare qualità a Rionero. E’ il senso proprio di un Concorso. Diceva Antonio Gramsci negli scritti dal carcere che l’Architettura è l’unica tra le arti che non abbia la necessità intrinseca che ciò che sia stato concepito, sia prodotto, per essere giudicato. Infatti se per un letterato è necessario che i suoi scritti siano pubblicati, per uno scultore che la sua idea sia materialmente trasposta in una statua, come per un pittore in un quadro, non così per un architetto, poichè è nel progetto in sé, al di là del fatto che esso sia realizzato, che l’architetto può essere giudicato. Poi, continuava Gramsci, è ovvio che l’architettura diviene socialmente accettata, quando dal disegno essa diviene pietra. Così nel Concorso di Architettura noi sveliamo interamente noi stessi, il nostro modo di concepire l’Architettura e, complici, come ogni altro uomo o donna sensibili, del nostro orgoglio, che dissimuliamo, ci sottoponiamo al giudizio terzo, con l’unica arma che abbiamo: i nostri disegni, il nostro progetto. In un bellissimo articolo del 2004, comparso sulla Repubblica, Vittorio Gregotti scriveva: “Forse è invece venuto il momento di cercare di fare chiarezza, di ricostruire regole, di tornare a riflettere sulle ragioni della storia, di non accettare la sua fine in cambio di una moda continua, della flessibilità senza confini, di riaprire la discussione su teorie e principi proprio in funzione di quelle utopie concrete intorno all’ essere: al di là della pura constatazione dello stato delle cose e della sua estetica. Questo è certamente il problema che almeno l’ architettura deve affrontare: uscire dalla ubriacatura del tutto è possibile, che si è aperta con la crisi del progetto moderno, che ha preso in pochi anni molte convulsioni diverse (post-moderno, decostruttivismo, zoomorfismo, virtualismo, ecc., ecc.) senza meditare sui compiti e sulla ontologia stessa della nostra disciplina, sulle sue responsabilità collettive e sulle conseguenze di una deregolazione senza fondamenti e prospettive: se non quella di un’ idea di libertà nel vuoto della pura assenza di impedimenti anziché immaginata come progetto”. Siamo d’accordo con Gregotti, v’è nell’ Architettura, vi deve essere, il senso della sua responsabilità collettiva, poiché noi architetti abbiamo molto ricevuto dalla società e dalla sua storia: a noi essa ci ha consegnato la Città, la sua tremenda e bellissima eredità, fatta di passioni e di lotte, del desiderio plurimillenario dell’uomo di lasciare un segno di fronte alla paura dell’oblio e della morte. Come possiamo noi architetti, se non tradendo tale eredità, non restituire alla società il nostro sapere, con umiltà e felicità? Il professionalismo, la conazione facile a ripetere ciò che si è già fatto, l’abbandono di ogni ricerca sono l’altra faccia negativa rispetto al rifiuto del senso della responsabilità collettiva dell’Architettura. Con queste idee, che, siamo convinti, traspaiono nei nostri disegni, ai Rocco, ai Mario, al vecchio con la pipa, a tutti gli abitanti di Rionero in Vulture noi consegniamo il progetto, perché sia giudicato, con la stessa levità, con la stessa ironia e, in fondo, con lo stesso amore con cui è stato redatto.

TEAM  PROJECT
GIOVANNI LORUSSO ARCHITETTO [capogruppo],
IDEA  s.r.l. [ arch. M. Fatigato, arch. C. Fatigato ing. L. Fatigato]
arch. F.M. Desantis,
arch. G.  Zizzi,
 

STRUTTURE

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